Non avevano mai lasciato il loro quartiere
a Cracovia, quei giovani vestiti di nero,
con cappelli e strane capigliature. Almeno
col pensiero: perché in aereo o in treno, in una
qualunque parte del globo, c’erano stati.
“La patria non si calpesta,
si sente dentro”, avevano sempre creduto.
Poi erano cresciuti, mentre ovunque
crollavano muri, barriere o solo facce dure.
Un unico vento spazzava le loro case, i vicoli,
le nuove e le vecchie sinagoghe. Tutto il mondo.
Lo stesso vento, gli stessi jeans. Le stesse scarpe
e lattine. Ma non le loro menti, si erano promessi
i tre amici di una vita.
Il sole però si era fatto più caldo, più forte,
avevano aperto negozi anche lì, hotel, mercatini.
Girato persino un grande film.
Erano venuti tanti turisti e i bar di sera
spesso si gonfiavano come la Vistola in piena.
I primi anni erano stati diversi, si erano detti
più volte. C’era più luce nei bicchieri vuoti di birra,
nelle strade del centro, nei loro occhi.
Un taxi straniero intanto passava, sfolgorante
come un diamante, come la luna poggiata sul mare.
Al suo passaggio si voltarono dietro alle spalle
e fu allora che sentirono bene
ancora quel vento. Dava i brividi questa volta,
sul collo, nel pensiero, sulle mani scoperte.
“Forse la nostra storia è diventata vento. Vento
che corre fra tempeste e bonacce, che ci passa accanto,
dentro. E noi siamo la sua patria, nessuno escluso.
La sua acqua, i suoi solchi, le sue onde”, disse
fra sé e sé Andrzej. Ma non volle, non poté andare oltre.
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LUCIANO BENINI SFORZA
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Nota: il testo è ispirato in modo libero e fantasioso alle suggestioni, ai luoghi e ai personaggi del “racconto visivo” contenuto in una foto di Francesco Merenda, intitolata Kazimierz.